venerdì 9 marzo 2007

Francesco Cocco

Sono stata anche a vedere un'altra mostra: Prisons di Francesco Cocco. Ammiro molto in quest'uomo la sua capacità di prendere posizione. Non solo in senso intellettuale, ma anche in senso fisico. Lui c'è, è sul posto e guarda da vicino. La sua mostra è stata curata da Contrasto. Bè, a mio parere le foto sono selezionate con poco ordine mentale. Poi non so. vabè, ho scritto ciò: La Sala Santa Rita, anche adesso che è stata destinata dal Comune di Roma ad accogliere iniziative culturali, non ha perso la sua atmosfera sacrale. In questa zona d’ombra fresca tutti entrano in silenzio, quasi in punta di piedi, subito disposti all’ascolto, al raccoglimento. Una musica accompagna la riflessione: sono i toni malinconici di Tom Yorke, potenti come una musica sacra, sciolgono le difese. C’è una fila di pannelli per lato, ma il centro della cappella è stato trasformato in una piccola sala di proiezioni, con le immagini che scorrono su un telo a ritmo della musica, davanti ad una ventina di sedie. L’effetto è avvolgente. Francesco Cocco (Recanati, 1960) è stato fin dagli esordi un fotografo impegnato, uno che non si tira indietro davanti alle situazioni più difficili, capace di guardare con partecipazione alla vita. È stato in Bangladesh, in Vietnam e in Cambogia, e ci ha parlato della guerra, della necessità di alimentare la pace e di difendere chi non può da solo. Nel 2000 inizia il suo viaggio nelle carceri Italiane, e si conclude dopo 5 anni. Gira l’italia da dietro le sbarre, da dentro le mura. Per portare a termine questo lavoro ha prestato i suoi occhi ai detenuti. Ritornano ossessivamente i simboli della detenzione: cavalli di frisia, filo spinato, porte e cancelli aperti su altre porte e cancelli. Ci sono i cortili, ma le mura sono alte e il cielo entra poco nella stanza. Il lavoro è vasto, e la raccolta delle foto non è uniforme. Ma nemmeno l’umanità che ci guarda da dentro quei quadri di carta lo è. Ci sono quelli con gravi disturbi mentali, rinchiusi nelle celle di isolamento, e viene da chiedersi se non ci sia un sede più adeguata ad ospitarli, e ci si immaginano scene di follia e violenza, per ritrovarsi ad osservare grandi occhi ingenui, lievemente malinconici.. Ci sono le donne, rinchiuse insieme ai loro bambini, che le lasceranno non appena compiuti i tre anni d’età per essere dati in affidamento. Inquadrature dal basso. Il fotografo diventa un bambino, che spia la madre che legge la posta, che osserva un altro bambino, che guarda una madre esausta. Ci sono donne che amano altre donne, con sguardi e modi da ragazzine ribelli e le transessuali che sorridono e prendono il sole. Un ragazzo mostra le sue cicatrici al sole, o forse il suo coraggio. Altri mettono in mostra i loro tatuaggi, qualcuno le sue capacità atletiche. In questo microcosmo dove tutto accade i giorni si assomigliano. E assomigliano a quelli di chi sta fuori. Ci si taglia i capelli, si cucina, si lavano i panni e si aspetta che il tempo scorra. E se anche le foto sono piene di trasparenze, di luci e di aperture, ci si chiede perché l’atmosfera debba essere così opprimente. Come se la privazione della libertà non fosse sufficiente , il regime carcerario è ciò che sappiamo senza esserci mai stati: la muffa sui muri, le grate, le sirene, la conta dei dtenuti, rumore di chiavi e sbatacchiamento di porte.Perchè? “Resta una risposta -dice Adriano Sofri - per far soffrire i detenuti”.

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