venerdì 23 marzo 2007

Non tutte le gatte partoriscono gattini ciechi

vi inoltro la mia ultima fatica letteraria..hihihi ;)
Non tutte le strade portano a Roma e non tutte le mostre riescono col buco, nonostante i presupposti… A Roma l’acquisizione di spazi per la cultura è una necessità sentita fortemente da tutti gli operatori del settore, e bisogna dire che il recupero dell’Ex Gil è davvero un intervento riuscito. Gli spazi sono freschi e luminosi, e la rigida divisione in sale, secondo i principi della trasparenza costruttiva, è quanto di meglio si possa desiderare per ospitare una mostra collettiva. Su una parete è rimasta impressa come basso rilievo la memoria delle imprese africane di tardo colonialismo italiano (o all’italiana per meglio dire), cosicché aver rubato a questa pagina spiegazzata della storia una gestione del tempo libero del tutto inaspettata rispetto all’ipotesi di partenza per questo edificio infonde una punta di euforia. La mostra, che vuole essere un’anteprima al sesto Festival Internazionale di Roma FotoGrafia, è curata magistralmente, non solo per quanto riguarda la scelta del progetto e la scelta del luogo, ma anche per quanto concerne la parte più propriamente pubblicitaria: alla mostra è stato dedicato un portale su internet, funzionale, completo nelle informazioni e dalla grafica attraente, e da uno sguardo superficiale si può dire che anche il catalogo della mostra sia un oggetto molto piacevole. Non si può dire lo stesso per quanto riguarda la scelta delle opere, che a volte non si rivelano all’altezza dei lavori precedenti degli artisti chiamati a partecipare. Ma andiamo per ordine. I primi fotografi che incontriamo alla destra dell’ingresso, sul piano rialzato sono Guy Tillim (Johannesburg, 1962) e Giuliano Matteucci (Roma, 1976). Il progetto di Guy Tillim è molto interessante nelle intenzioni, che sarebbero quelle di ripercorrere le tracce di San Francesco in Sabina. Qualche attento camminatore della conca reatina sicuramente godrà nel riconoscere i luoghi della sue identità regionale, ma di per sé le foto non hanno molto nerbo, perché sembrano mancare di una reale tensione narrativa e introspettiva. Ma ad essere sinceri lo sguardo neutro dell’autore potrebbe anche funzionare aiutato da una buona stampa: si sente l’assenza di una accurata postproduzione che marchi i soggetti delle immagini, e per di più il getto di inchiostro sembra virare al seppia, questione che pone di per sé già delle domande. Due oggetti stranianti compaiono in queste immagini: un televisore abbandonato in una radura vicino Piè di Maggio e un Sant’Antonio di gesso sdraiato sull’asfalto in mezzo ad una cortina di figure umane spezzate. Sulla parete opposta Giuliano Matteucci ci guida fra le tenere nebbie di Farfa. Il Tevere è una lastra di alabastro su cui gli oggetti naturali e umani si poggiano senza lasciare ombra, e solo i riflessi lattiginosi, di una barca, di una canna di fiume, separano il cielo e le acque. Questa volta il getto d’inchiostro non ferisce il supporto di carta ruvida e porosa, e avvicina le foto ai bozzetti dei paesaggisti tardo settecenteschi, aiutato anche dalla naturale bicromia del luogo, composto solo dal bianco del cielo e dal verde delle piante. In questa atmosfera sospesa e irreale compaiono due oggetti che sembrano provenire dalle foschie della memoria: una sedia minimale buttata su un argine, di quelle dell’infanzia sui banchi di scuola, e l’insegna di un agriturismo dal nome parlante, “la luna sul Tevere” inchiodata sbieca ad un tronco. In fondo alla sala principale incontriamo Angelo Antolino (Napoli, 1979). Espone “La strategia dell’attenzione”, un a serie di immagini realizzate nel 2006 presso il borgo che ospita l’Abbazia di Farfa. Il suo lavoro è un lavoro dialettico: alla sinistra dell’osservatore abbiamo l’interno dell’abbazia, vista attraverso l’esistenza di un monaco che ha scelto la clausura; sulla destra la notte nel borgo ribatte alle foto di interni. Ma in realtà ci troviamo di fronte a due tenebre, a due silenzi e a due isolamenti che non hanno molto da comunicarsi, e che seppure simili sono in sostanza l’uno all’altro vietati. Un maligno pensiero laterale suggerisce che il monaco, ritratto nelle sue letture, nella preghiera o seduto all’organo non si perde poi un granché: le pietre del borgo sembrano immote dalla loro fondazione medievale. Subito a sinistra la Sala Boso si apre ad ospitare altri tre giovani artisti, si tratta di Xavier Ribas (Barcellona, 1960), Raphael Dalla porta (Parigi, 1980), e Luca Nostri (Faenza, 1976). Partendo dal fondo troviamo le bellissime stampe cromogeniche di Xavier Ribas, tratte dalla serie “Vulci”, scattate sull’omonimo parco archeologico. Sono immagini di grande eleganza, dalle inquadrature ortogonali, dove il campo è quasi sempre diviso nettamente in due settori. Con grande semplicità riesce a raccontarci le diverse fasi si una stessa storia umana: la vita agreste contemporanea rubata allo scorrere impercettibile del fiume che è quasi palude in questo tratto, e l’insediamento remoto che l’ha preceduta, con i pochi tratti di una parete in opus reticulatum e di un perimetro murario. Tra queste immagini una emerge per la sua enigmaticità: sulla riva a valle, davanti all’alta parete a monte i cui strati sono trafitti da una vegetazione sparuta e contorta, il fiume ha lasciato un messaggio dal codice ignoto, fatto di rami spogli piantati nel fango. Eccoci al più giovane del gruppo, ma non per questo meno premiato: Raphael Dallaporta. Il suo occhio attento si è sparso sul litorale laziale, tra i confini nord e sud della regione. Ogni sua foto racchiude l’attesa di un piccolo evento. Le immagini sono purissime, disciplinate e luminose. Si rifrangono tra loro esaltandosi, anche se gli situazioni ritratte sono di varia natura. Raccontano bene la vita del mare, lungamente silenziosa e deserta per i molti mesi che precedono le ferie d’estate. Gli unici esseri umani che compaiono a sfidare i suoi silenzi sono supereroi in muta dediti alla tavola da surf. Altrimenti l’Uomo è l’essere che lascia segni decifrabili solo alla luce di uno sguardo ironico: un’insegna a forma di squalo verso i cancelli di ostia si ripara dalla stagione fredda con un involucro di plastica da cui spuntano solo il muso e la pinna caudale, e una piccola auto d’epoca isolata dall’alluvione dell’alta marea. Il confine tra Lazio e Toscana e segnato dalla schiuma di un’onda. Luca Nostri ci mostra immagini senza mistero. Svolge puntualmente la sua indagine sull’Appia, seguendola fino alle porte della Campania, accostando in maniera analitica aree archeologiche e segni urbani. Tutti gli elementi fotografici sembrano essere indirizzati ad una funzione meramente descrittiva: la luce è cruda, le ombre nette ma comunque quasi assenti, il taglio non è largo e non è stretto, ma la compresenza di elementi che riuscirebbero di per sé ad essere un buon soggetto, fa si che non sembri neanche giusto, perché la prospettiva scelta fa si che uno di questi risulti sempre sminuito sulla scena, e faccia infine solo da disturbo. Dispiace, perché nel lavoro c’è una buona concentrazione rispetto al tema, e in alcune immagini notturne il fotografo prende la sua rivalsa sull’ indagatore, con un gusto per l’ombra e per i colori che lascia sorpresi. Ai piani altri dell’edificio finalmente Luca Campigotto (Venezia, 1962), con una sala completamente dominata dalle sue immagini. Gli scatti ritraggono le isole di Ponza , Santo Stefano e Ventotene da un punto di vista che riesce benissimo ad essere poetico e storico. Queste sono le isole della prigionia e del confino, i luoghi di detenzione di anarchici e antifascisti, e sorridono ben poco al turista. E’ un vagabondare per le linee estreme dei loro profili, che conduce ad approdi inaspettati: le carceri abbandonate di Santo Stefano, i resti delle miniere e un vecchio fortino. Ma non c’è vero riposo in questi resti di “civiltà”, che osservano severi dalle finestre cupe e sbarrano il passo con recinti e porte divelte. Il paesaggio è più esplicito, e assale chi guarda. La natura minaccia con un cielo di latte cagliato, dove un sole cieco fa comparire di quando in quando delle fosse opaline, per citare Nabokov. La scogliera è brulla e il mare impensierito sbatte contro le rocce. Davanti alle foto ci sente come nel preludio di un poema epico, e l’impressione è di una grande energia che attende liberazione. E liberati da questa ultima emozione estetica si può tornare a casa in pace con gli organizzatori della mostra.

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