sabato 31 marzo 2007

Dürer o Carracci?

Dürer.

Caro Carracci, Ma perchè? la mostra al chiostro del Bramante ha una didascalia da viaggio d'istruzione delle medie. Le tele sono accostate un pò per periodo e un pò per tema. Carracci. Ma chi era? La mostra confonde le acque e confonde il fruitore. Carracci umanista, poi barocco, poi nuovo Raffaello, poi oppositore di Caravaggio con i paesaggi, Caravaggesco nei ritratti, poi dipintore di Santi, e che altro ancora? attento al realismo eppure deformante come un primo Van Gogh. Spinto nell'europa dai mecenati e dagli stili sembra uscirne piuttosto confuso. Ma che dire. Io non lo conosco, e nemeno ho il piacere. Si gira per le sale chiedendo Pietà. Finalmente la pietà arriva. E' l'ultima tela e forse la più forte. Tutti gli sguardi si incrociano, gli occhi sono stroppicciati dal pianto e i gesti naturali. Il premio per la tela più divertente va alla Venere, con la schiena di Venere gentilmente interpretata dalla schiena del Ludovico Carracci. Venere appare come una casta preda, e intorno al lei si agita un fauno ammiccante e un puttino leccapatonze. La cupidigia del fauno viene invece temperata da un puttino reggicorna. Dürer è trascinante. La mostra è un pò strana. Dovrebbe essere basata fra il cofronto fra autori, ma davvero non si comprende su che cosa si basi questo confronto. Sembra una cosa un tantino arrangiata. Roma Firenze una linea rossa. Che cosa avete nei vostri sgabuzzini? Boh, qui avremmo un bacchino malato e due monete di bronzo romane. Bahf. Però Dürer. Tutti gli artisti Italiani sembrano affannarsi a copiazzare le sue stampe, ma nessuno ha quel tratto veloce e disinvolto. Questi personaggi da fumetto, quelle ambientazioni nordiche. I suoi alberi si contorcono con una certa naturalezza, gli animali saltano. Niente in lui ha un'aria composta o sospesa, e guardarlo è una gioia. vabò. ciao

venerdì 23 marzo 2007

brucerò all'inferno

Oggi il prete ha bussato per la benedizione pasquale. "non ne abbiamo bisogno, grazie", ho risposto. Una mia compagna di casa si è buttata fuori dalle scale ad inseguirlo..e l'ha trvato. L'ometto si è intrufolato subito in casa, posteggiandosi in corridoio. Poteva da lì così godere di una pittoresca vista sulle mie mutande e i miei calzini sporchi buttati al centro della stanza. Ho chiuso la porta. S'è risentito!!! Ha detto alla mia amica che se io pregassi il mio astio verso i preti andrebbe via, e capirei che cene sono anche di simpatici. ma io non odio i preti, io odio la pretofilia! hihihihi baci belli

Non tutte le gatte partoriscono gattini ciechi

vi inoltro la mia ultima fatica letteraria..hihihi ;)
Non tutte le strade portano a Roma e non tutte le mostre riescono col buco, nonostante i presupposti… A Roma l’acquisizione di spazi per la cultura è una necessità sentita fortemente da tutti gli operatori del settore, e bisogna dire che il recupero dell’Ex Gil è davvero un intervento riuscito. Gli spazi sono freschi e luminosi, e la rigida divisione in sale, secondo i principi della trasparenza costruttiva, è quanto di meglio si possa desiderare per ospitare una mostra collettiva. Su una parete è rimasta impressa come basso rilievo la memoria delle imprese africane di tardo colonialismo italiano (o all’italiana per meglio dire), cosicché aver rubato a questa pagina spiegazzata della storia una gestione del tempo libero del tutto inaspettata rispetto all’ipotesi di partenza per questo edificio infonde una punta di euforia. La mostra, che vuole essere un’anteprima al sesto Festival Internazionale di Roma FotoGrafia, è curata magistralmente, non solo per quanto riguarda la scelta del progetto e la scelta del luogo, ma anche per quanto concerne la parte più propriamente pubblicitaria: alla mostra è stato dedicato un portale su internet, funzionale, completo nelle informazioni e dalla grafica attraente, e da uno sguardo superficiale si può dire che anche il catalogo della mostra sia un oggetto molto piacevole. Non si può dire lo stesso per quanto riguarda la scelta delle opere, che a volte non si rivelano all’altezza dei lavori precedenti degli artisti chiamati a partecipare. Ma andiamo per ordine. I primi fotografi che incontriamo alla destra dell’ingresso, sul piano rialzato sono Guy Tillim (Johannesburg, 1962) e Giuliano Matteucci (Roma, 1976). Il progetto di Guy Tillim è molto interessante nelle intenzioni, che sarebbero quelle di ripercorrere le tracce di San Francesco in Sabina. Qualche attento camminatore della conca reatina sicuramente godrà nel riconoscere i luoghi della sue identità regionale, ma di per sé le foto non hanno molto nerbo, perché sembrano mancare di una reale tensione narrativa e introspettiva. Ma ad essere sinceri lo sguardo neutro dell’autore potrebbe anche funzionare aiutato da una buona stampa: si sente l’assenza di una accurata postproduzione che marchi i soggetti delle immagini, e per di più il getto di inchiostro sembra virare al seppia, questione che pone di per sé già delle domande. Due oggetti stranianti compaiono in queste immagini: un televisore abbandonato in una radura vicino Piè di Maggio e un Sant’Antonio di gesso sdraiato sull’asfalto in mezzo ad una cortina di figure umane spezzate. Sulla parete opposta Giuliano Matteucci ci guida fra le tenere nebbie di Farfa. Il Tevere è una lastra di alabastro su cui gli oggetti naturali e umani si poggiano senza lasciare ombra, e solo i riflessi lattiginosi, di una barca, di una canna di fiume, separano il cielo e le acque. Questa volta il getto d’inchiostro non ferisce il supporto di carta ruvida e porosa, e avvicina le foto ai bozzetti dei paesaggisti tardo settecenteschi, aiutato anche dalla naturale bicromia del luogo, composto solo dal bianco del cielo e dal verde delle piante. In questa atmosfera sospesa e irreale compaiono due oggetti che sembrano provenire dalle foschie della memoria: una sedia minimale buttata su un argine, di quelle dell’infanzia sui banchi di scuola, e l’insegna di un agriturismo dal nome parlante, “la luna sul Tevere” inchiodata sbieca ad un tronco. In fondo alla sala principale incontriamo Angelo Antolino (Napoli, 1979). Espone “La strategia dell’attenzione”, un a serie di immagini realizzate nel 2006 presso il borgo che ospita l’Abbazia di Farfa. Il suo lavoro è un lavoro dialettico: alla sinistra dell’osservatore abbiamo l’interno dell’abbazia, vista attraverso l’esistenza di un monaco che ha scelto la clausura; sulla destra la notte nel borgo ribatte alle foto di interni. Ma in realtà ci troviamo di fronte a due tenebre, a due silenzi e a due isolamenti che non hanno molto da comunicarsi, e che seppure simili sono in sostanza l’uno all’altro vietati. Un maligno pensiero laterale suggerisce che il monaco, ritratto nelle sue letture, nella preghiera o seduto all’organo non si perde poi un granché: le pietre del borgo sembrano immote dalla loro fondazione medievale. Subito a sinistra la Sala Boso si apre ad ospitare altri tre giovani artisti, si tratta di Xavier Ribas (Barcellona, 1960), Raphael Dalla porta (Parigi, 1980), e Luca Nostri (Faenza, 1976). Partendo dal fondo troviamo le bellissime stampe cromogeniche di Xavier Ribas, tratte dalla serie “Vulci”, scattate sull’omonimo parco archeologico. Sono immagini di grande eleganza, dalle inquadrature ortogonali, dove il campo è quasi sempre diviso nettamente in due settori. Con grande semplicità riesce a raccontarci le diverse fasi si una stessa storia umana: la vita agreste contemporanea rubata allo scorrere impercettibile del fiume che è quasi palude in questo tratto, e l’insediamento remoto che l’ha preceduta, con i pochi tratti di una parete in opus reticulatum e di un perimetro murario. Tra queste immagini una emerge per la sua enigmaticità: sulla riva a valle, davanti all’alta parete a monte i cui strati sono trafitti da una vegetazione sparuta e contorta, il fiume ha lasciato un messaggio dal codice ignoto, fatto di rami spogli piantati nel fango. Eccoci al più giovane del gruppo, ma non per questo meno premiato: Raphael Dallaporta. Il suo occhio attento si è sparso sul litorale laziale, tra i confini nord e sud della regione. Ogni sua foto racchiude l’attesa di un piccolo evento. Le immagini sono purissime, disciplinate e luminose. Si rifrangono tra loro esaltandosi, anche se gli situazioni ritratte sono di varia natura. Raccontano bene la vita del mare, lungamente silenziosa e deserta per i molti mesi che precedono le ferie d’estate. Gli unici esseri umani che compaiono a sfidare i suoi silenzi sono supereroi in muta dediti alla tavola da surf. Altrimenti l’Uomo è l’essere che lascia segni decifrabili solo alla luce di uno sguardo ironico: un’insegna a forma di squalo verso i cancelli di ostia si ripara dalla stagione fredda con un involucro di plastica da cui spuntano solo il muso e la pinna caudale, e una piccola auto d’epoca isolata dall’alluvione dell’alta marea. Il confine tra Lazio e Toscana e segnato dalla schiuma di un’onda. Luca Nostri ci mostra immagini senza mistero. Svolge puntualmente la sua indagine sull’Appia, seguendola fino alle porte della Campania, accostando in maniera analitica aree archeologiche e segni urbani. Tutti gli elementi fotografici sembrano essere indirizzati ad una funzione meramente descrittiva: la luce è cruda, le ombre nette ma comunque quasi assenti, il taglio non è largo e non è stretto, ma la compresenza di elementi che riuscirebbero di per sé ad essere un buon soggetto, fa si che non sembri neanche giusto, perché la prospettiva scelta fa si che uno di questi risulti sempre sminuito sulla scena, e faccia infine solo da disturbo. Dispiace, perché nel lavoro c’è una buona concentrazione rispetto al tema, e in alcune immagini notturne il fotografo prende la sua rivalsa sull’ indagatore, con un gusto per l’ombra e per i colori che lascia sorpresi. Ai piani altri dell’edificio finalmente Luca Campigotto (Venezia, 1962), con una sala completamente dominata dalle sue immagini. Gli scatti ritraggono le isole di Ponza , Santo Stefano e Ventotene da un punto di vista che riesce benissimo ad essere poetico e storico. Queste sono le isole della prigionia e del confino, i luoghi di detenzione di anarchici e antifascisti, e sorridono ben poco al turista. E’ un vagabondare per le linee estreme dei loro profili, che conduce ad approdi inaspettati: le carceri abbandonate di Santo Stefano, i resti delle miniere e un vecchio fortino. Ma non c’è vero riposo in questi resti di “civiltà”, che osservano severi dalle finestre cupe e sbarrano il passo con recinti e porte divelte. Il paesaggio è più esplicito, e assale chi guarda. La natura minaccia con un cielo di latte cagliato, dove un sole cieco fa comparire di quando in quando delle fosse opaline, per citare Nabokov. La scogliera è brulla e il mare impensierito sbatte contro le rocce. Davanti alle foto ci sente come nel preludio di un poema epico, e l’impressione è di una grande energia che attende liberazione. E liberati da questa ultima emozione estetica si può tornare a casa in pace con gli organizzatori della mostra.

Cinema a pacchi..

Dovrei parlare di questo film, perchè è esattamente il film che aspettavo di vedere da settimane, e che aspettavo per scrivere qualcosa di interessante.
Il film in realtà non dice nulla di stupefacente. Anzi, secondo me sono stati anche abbastanza ottimisti e moderati. Ha un bellissimo montaggio, gli attori sono dei fighi, eppure non mi convince. E' un pò sfuggente. Doveva essere un film partigiano e viene da chiedersi, ma PARchè? ma PAR chi?
Parliamo invece del fatto che sto pirateggiando con e-mule e che mi sto scaricando tutto truffaut!
qualche giorno fa ho visto l'ultimo metrò, e ieri notte dopo il cinema, per puro caso, ho visto la mia droga i chiama julie.
Dico per puro caso perchè non ero a conoscenza del fatto che tra i due film ci sono dei meravigliosi richiami filologici. Il nome della protagonista femminile, Marion (Marianne pronunciato con adenoide francese forse?), l'attrice protagonista, una deliziosa Deneuve senza ancora il sopraccigliostupefatto, e le caviglie più golose che la cinematografia ricordi, nonchè alcune delle battute più sgraziate: tutta la questione dell'amore come gioia e sofferenza. Spero solo che sia tutta colpa della traduzione italiana, perchè nel dire che guardare il volto dell'amato è una gioia un giorno è una sofferenza il ciorno appresso, è una cosa banale e maldetta anche nel 1968, e in ogni caso l'anno detta meglio Archiloco, Saffo e Catullo.
Penso che ci sia dell'ironia, dunque.
Non solo, ma la protagonista di questi film si trova sempre tra jul e jim, ovvero felicemente contesa tra due uomini.
Non so se valga solo per me, ma un pò questa supposizione di truffaut, che una donna non sappia mai scegliere tra due uomini, che una donna abbia due nature, e soprattutto che le donne non sappiano distinguere tra amore e tenerezza, mi fa un pò incazzare. E mi fa incazzare perchè suppone bene.
L'ultimo metrò più che L.M.D.S.C.J. mi è sembrato uno di quei film che ti fanno dire: ecco l'autore nella sua maturità artistica. Trai suoi che ho visto (che non sono pochi, ma saranno sempre pochi rispetto a quelli che mi mancano da vedere), fino a questo momento mi sembra l'unico conchiuso (non ci sono troppi "finali" in Truffaut, piuttosto dei "FINE"), Con una costruzione che non si slabbra, non lascia dubbi, e con i dialogi meno surreali. I dialoghi surreali li infila tutti nei pezzi di teatro raccontati nel film.
Un'altra cosa che proprio mi diverte in questo regista è il suo modo di vedere il sesso: è proprio un sesso con la maglietta a strisce e il basco blu! Quando il sesso compare nei suoi film vuol dire sempre e solo una cosa: sesso! Due persone si desiderano, ed è semplice, lo fanno e basta, lo fanno durante il loro primo bacio. Possono essere turbati dal nazismo, o allegri come una coppia appena sposata, ma il sesso non ha mai un significato altro, morboso o nascosto. Un rapporto nascosto, un'intesa speciale viene rivelata dal gioco di sguardi in scene successive piuttosto, come se il sesso fosse niente altro che un incontro particolare, il cui senso profondo si esplicita con il tempo.
mica come quel morboso cane andaluso di Bunuel! qualcuno mi metta l'accento circonflesso, per favore.
Buonanotte

mercoledì 21 marzo 2007

Neve su Roma

Ieri sera una grandine morbida morbida si è posata su tutti i tettucci delle macchine e su tutti i cascatoi dei marciapiedi. Guardavo San Lorenzo da casa di amici ed era tenero tutto quel bianco. La gente si scambia telefonate per questi eventi, e mi sembra molto buffo... Ho finito di leggere Franny e Zooey da quasi una settimana. Mi ha riempito di dubbi. Salinger dipinge due giovani, fratello e sorella, molto intelligenti, due ex bambini prodigio, col pallino della religione. Non dico che intelligenza e religiosità non possano ritrovarsi nello stesso corpo insieme ( in realtà si, perlopiù lo credo), ma mi stupisce enormente vedere che i due personaggi di Salinger, non sono solo banalmente intelligenti, ma anche pieni di senso critico verso il mondo, di ironia e di violenza. Insomma, sono due persone religiose che sopra il proprio credo costruiscono valori etici personali, e sono in buona fede. Mi rendo conto che quello che sto scrivendo possa sembrare molto ingenuo, ma devo dire che da atea quale sono, il fatto che il cattolicesimo possa essere vissuto così dalle persone mi sorprende, e per di più mi spiazza (cioè non so più cosa pensare nè della questione, nè di quella me stessa che si pone queste domande) che i due non siano persone, ma personaggi letterari, quindi? Quindi persone non esistenti. e da qui un altro pacco di domande: è Salinger che ha vissuto questi contrasti interiori? Qualcuno che lui ha conosciuto? i suoi fratelli? E' veramente utile spostare l'attenzione sulla biografia dell'autore per trovare un terreno saldo su cui mettere i piedi? Maledetti cattolici! Mi creano sempre problemi, e a dire la verità se un giorno mio figlio o mio nipote mi chiedessero un libro darei loro da leggere Lolita piuttosto che questo.

domenica 11 marzo 2007

Guida per riconoscere i tuoi santi

Stasera, dopo una giornata veramente piatta e deprimente, mi sono regalata questo piccolo godimento. Il film è bello, intelligente, raccontato bene e realistico.

Un giovane scrittore americano torna al suo quartiere, il Queens di New York, e ritrova tutto ciò da cui è fuggito.

Poteva anche fuggire prima e risparmiare tanti casini a tutti!

La storia è bella, le manca qualcosa per essere completa, che cosa non so bene però.

Il mio vicino di posto puzzava rancido dalle scarpe da ginnastica e io mi sono buttata tutta sul fianco opposto.

Buonanotte a tutti.

D.

venerdì 9 marzo 2007

Lettere da Iwo Jima

Ce n'è abbastanza per convincere quelli che sostengo ancora la guerra come unica igiene del mondo a farsi un bidet. Clint è fortissimo a spiegare come di igiene non cene sia molta. I soldati si prendono la dissenteria se pisciano controvento nella fognatura sbagliata, mangiano vermi, scavano fosse sudando come disperati, dormono in certe cavità piene di insetti. Non credo sia possibile augurare a qualcuno che si ama(ma nemmeno a qualcuno di cui non ci importa poi tanto) di trovarsi in mezzo al campo di battaglia dopo questa esperienza filmica. Un tale, graduato va in Afganistan. Fa testamento. Il sud è pieno di Taliban. Non penso si aspetti di prendersi i pidocchi. Remo Remotti... come risponde Remo? “M’è venuta un’idea geniale (…), una stronzata, un uovo di Colombo.Basta con queste guerre dove mandiamoad ammazzare questi giovani a 18, 20 anniper arricchire qualche petroliereo qualche banchiere internazionaled’ora in poi le guerre saranno fatte dai vecchi.Quanti anni hai? 70? Sotto le armi.Questi vecchi che voi abbandonatenei giardini pubbliciper andarvene in giro per il mondo d’estateassieme a cani e gatti e altri animalid’ora in poi un calcio nel culo, tutti in caserma!” sul suo Blog potete sentirla tutta.. è magnifica www.myspace.com/remoremotti.

Francesco Cocco

Sono stata anche a vedere un'altra mostra: Prisons di Francesco Cocco. Ammiro molto in quest'uomo la sua capacità di prendere posizione. Non solo in senso intellettuale, ma anche in senso fisico. Lui c'è, è sul posto e guarda da vicino. La sua mostra è stata curata da Contrasto. Bè, a mio parere le foto sono selezionate con poco ordine mentale. Poi non so. vabè, ho scritto ciò: La Sala Santa Rita, anche adesso che è stata destinata dal Comune di Roma ad accogliere iniziative culturali, non ha perso la sua atmosfera sacrale. In questa zona d’ombra fresca tutti entrano in silenzio, quasi in punta di piedi, subito disposti all’ascolto, al raccoglimento. Una musica accompagna la riflessione: sono i toni malinconici di Tom Yorke, potenti come una musica sacra, sciolgono le difese. C’è una fila di pannelli per lato, ma il centro della cappella è stato trasformato in una piccola sala di proiezioni, con le immagini che scorrono su un telo a ritmo della musica, davanti ad una ventina di sedie. L’effetto è avvolgente. Francesco Cocco (Recanati, 1960) è stato fin dagli esordi un fotografo impegnato, uno che non si tira indietro davanti alle situazioni più difficili, capace di guardare con partecipazione alla vita. È stato in Bangladesh, in Vietnam e in Cambogia, e ci ha parlato della guerra, della necessità di alimentare la pace e di difendere chi non può da solo. Nel 2000 inizia il suo viaggio nelle carceri Italiane, e si conclude dopo 5 anni. Gira l’italia da dietro le sbarre, da dentro le mura. Per portare a termine questo lavoro ha prestato i suoi occhi ai detenuti. Ritornano ossessivamente i simboli della detenzione: cavalli di frisia, filo spinato, porte e cancelli aperti su altre porte e cancelli. Ci sono i cortili, ma le mura sono alte e il cielo entra poco nella stanza. Il lavoro è vasto, e la raccolta delle foto non è uniforme. Ma nemmeno l’umanità che ci guarda da dentro quei quadri di carta lo è. Ci sono quelli con gravi disturbi mentali, rinchiusi nelle celle di isolamento, e viene da chiedersi se non ci sia un sede più adeguata ad ospitarli, e ci si immaginano scene di follia e violenza, per ritrovarsi ad osservare grandi occhi ingenui, lievemente malinconici.. Ci sono le donne, rinchiuse insieme ai loro bambini, che le lasceranno non appena compiuti i tre anni d’età per essere dati in affidamento. Inquadrature dal basso. Il fotografo diventa un bambino, che spia la madre che legge la posta, che osserva un altro bambino, che guarda una madre esausta. Ci sono donne che amano altre donne, con sguardi e modi da ragazzine ribelli e le transessuali che sorridono e prendono il sole. Un ragazzo mostra le sue cicatrici al sole, o forse il suo coraggio. Altri mettono in mostra i loro tatuaggi, qualcuno le sue capacità atletiche. In questo microcosmo dove tutto accade i giorni si assomigliano. E assomigliano a quelli di chi sta fuori. Ci si taglia i capelli, si cucina, si lavano i panni e si aspetta che il tempo scorra. E se anche le foto sono piene di trasparenze, di luci e di aperture, ci si chiede perché l’atmosfera debba essere così opprimente. Come se la privazione della libertà non fosse sufficiente , il regime carcerario è ciò che sappiamo senza esserci mai stati: la muffa sui muri, le grate, le sirene, la conta dei dtenuti, rumore di chiavi e sbatacchiamento di porte.Perchè? “Resta una risposta -dice Adriano Sofri - per far soffrire i detenuti”.

martedì 6 marzo 2007

Borat

Sto aspettando questo film dal Festival del cinema di Roma. E' un film singolare senz'altro, ma credo che faticherò ancora ad abituarmi al digitale nel cinema.. La pellicola ha effettivamente un sapore diverso..è così nitida. Il film è esilarante a tratti, catartico più di zaytoichi (?giusto) in alcune scene (gustatevi la lotta nuda!!!!). Ma non mi sembra si tratti dell'umorismo avanguardistico che ci avevano annunciato!!! Sarà un pò il doppiaggio, e forse un quel tanto di estraneità alla cultura americana che fa sentire un pò di distanza...non so dire. Però il progetto che c'è dietro è veramente interessante. Sarei curiosa di poter frugare fra i materiali di scarto, che pare siano voluminosi. un bacio e buonanotte. D.

venerdì 2 marzo 2007

strani accadimenti

ho voglia di raccontare due cose buffe e banali che mi sono capitate questa settimana. L'altra mattina ho fatto colazione con pane e marmellata, e mi sono portata dietro dalla dispensa della marmellata. Sono in realtà delle razioni monodose di marmellata, confezionate in un astuccio di cartone che ne tiene insieme quattro. Ne avevo un pacco già aperto ai mirtilli e uno da aprire alla fragola, ma quella mattina mi andava la fragola. Ho aperto la confezione e l'ho spalmata tra due fette di pane bianco e mela stvo gustando, quando con mia enorme sorpresa, e quasi raccapriccio, mi sono accorta dal pacchetto che avevo appena scartocciato ne mancavano due, non una! Mi sono bloccata. Mi sono guardata intorno per vedere che non ci fossero folletti o esseri misteriosi (non che io creda nella loro esistenza), e con la mente ancora torpida mi sono avventurata sotto i mobili della cucina alla ricerca di questa fxxxxxx marmellatina comparsa da sotto il mio naso.Ho controllato anche nella spazzatura, ma non c'era traccia. Mi sono riseduta e con il groppo in gola ho continuato a masticare il mio panino ripieno, congetturando una qualche discontinuità nel tessuto del reale, perchè ovviamente avevo anche come la percezione che nella confezione della marmellata ai mirtilli le marmellatine fossero aumentate di unarispetto ai miei calcoli. Dentro di me pensavo " ecco, ora che la realtà mi ha mostrato una falla nella sua continuità temporale cercherà di eliminarmi...di espellermi dal gioco perchè ho visto che non si riproduce uguale a se stessa in ogni momento.." Vabè... cmq la marmellatina alla fragola ancora non è saltata fuori. Secondo racconto. Sono tornata a casa alle dieci da una giornata molto densa, e ancora non avevo cenato. Mi mancava del tutto la fantasia, ma mi sono comunque trascinata in cucina per sbattere de uova nell'acqua bollente e tagliare un grappolo di pomodori. Leggevo "La versione i Barney", libro che ho regalato addirittura a mio fratello sulla fiducia, nella speranza di poterlo leggere in breve ancora prima di averne una mia copia, ed ero molto assorta, quand'ecco che fuori iniziano i fuochi d'artificio. Sono durati dieci minuti e a quel punto mi sono hiesta "chissà cosa accidenti si festeggia di così importante oggi..che giorno è?" mi sono alzata per accendermi una sigaretta e mi sono accorta che le uova, sbattacchiando l'una contro l'altra fra le bolle, producevano quel suono del tutto assimilabile ai fuochi d'artificio nel parco sotto casa. Ok sono scema. Stasera sono stata ad un bellissimo incontro all'istituto superiore di fotografia tra il professor Fragapane e il professor Marra, Roma VS Bologna. E' stato avvincente. Si sono misurate una visione romantica ed una visione positivista della vita da cui l'assemblea a trato molto gusto, tanto che alla fine quasi ci si prendeva a colli di bottiglia tra fotografi sostenitori del cambiamento portato in fotografia dal digitale e dai sostenitori di non cambia niente apparte i costi. Non è vero. Nessun collo di bottiglia. Le acque minerali erano tutte in plastica, ma l'ambiente si è surriscaldato, e io sono anche andata a fare un intervento, non chiarissimo in vero, ma che è sembrato molto chiaro ad un ragazzo che ha frequentato la scuola, che è venuto a complimentarsi, e devo dire che io trovo che lui sia davvero un grande. Non mi ricordo come si chiami, mi ricordo che è del viterbese, che sa con una ragazza sarda, che ha fama di scapestrato, che ama viaggiare, e che è stato un anno all'estero senza sapere nessuna lingua, tra parigi e dublino e da questa esperienza ha riportato delle polaroid bellissime, colorate e suggestive, e che la solitudine lo ha iniziato a scoperte letterarie e cinematografiche. Bè mi fa simpatia e sono contenta per lui. Buonanotte.