lunedì 12 novembre 2007

Caffè e mirtilli blu

mi dice "sai che c'è? io ho sempre fatto casino col cibo"... è un bel modo per dirlo, penso. Per quel che mi riguarda ho sempre fatto molto molto casino col cibo. Perchè il cibo è una specie di equazione il cui risultato fa a volte parte del reale a volte dell'irreale, ma è sempre amore. Amore. Così io la guardo. I suoi occhi grandi somigliano a due uova in padella, e sulla sua pelle qualunque cibo potrebbe trovare il giusto punto di cottura in meno di 40 secondi. I suoi occhi sono uova cotte al sole del deserto. Quando ci cacciano dal bar alle due di notte, e lei è andata via dicendo ci sentiamo presto, ti faccio uno squillo quando torno a casa, io mi ritrovo solo. Ho come l'impressione di una rivelazione. Ho come l'impressione che nel suo casino e nel suo cibo ci sia la chiave. Voglio stare lì fra il suo cibo e il suo casino, tra il sale sparso e il basilico sul davanzale. Voglio stare lì, nel suo cuore, accanto al barattolo di Yogurt scaduto da 5 giorni e il cespo d'insalata. Aveva detto anche "io non vorrei finire così". Quella mattina una vecchia del suo palazzo era stata portata via dagli infermieri. La croce verde che le recapitava le medicine a casa il giovedì, aveva avuto un singolare incidente con la signora in questione. "Si, insomma quelli sono saliti, e pare che insieme al caffè che gli offriva sempre abbia propinato agli infermieri anche dei biscotti fatti da lei. Il problema è che nei biscotti la vecchia ci ha messo..bè ci ha messo palline di coniglio.." "come palline di coniglio? che vuol dire?" "si..insomma cacca di coniglio..la signora ha un coniglio nero da compagnia e invece di gocce di cioccolato ci ha messo cacca di coniglio!...o insomma...questo è quello che ha detto la portinaia..." Con le dita rincorreva un pistacchio sul tavolo, e guardava in basso. Presi la sua manina e mela portai alla bocca. Un piccolo bacio sulla punta delle dita salate. Un piccolo bacio per scacciare la paura della solitudine e della follia. Mancavano pochi giorni al suo compleanno. Avrei preparato per lei un dolce, del tutto speciale. Così quella notte non mi addormentai subito, ma ad un certo punto mi dovetti alzare a scrivere un piano di battaglia: Domenica: porta portese, mixer elettrico Lunedì: mercato, mirtilli blu, marmellata di more, caffè solubile, mandorle poi burro latte farina uova e zucchero. è tutto? no. Chiamare mamma. Mi addormentai sognando me stesso nudo con un cappello da cuoco in testa invece che in mutande alla scrivania. Il pomeriggio di lunedì tutto era pronto. iniziai col preparare la pasta della crostata. Che poi si fa così: Si mescolano tutti gli ingredienti insieme col mixer elettrico, iniziando dallo zucchero con il burro un pò ammorbidito, io il mio lo misi un pò sul davanzale sotto il sole, poi l'uovo e la scorza grattugiata di un limone. Cazzo, e io il limone non l'avevo comprato. Mi misi a frugare dentro il frigo, dentro la dispensa, alla ricerca di un limone anche mezzo ammuffito, anche mezzo limone. No. Non l'ombra. Citofonare ai vicini? non sene parla. Ogni volta, in queste situazioni, associo la mia timidezza alla pubblicità di axe, quand'ero bambino c'era l'uomo che non deve chiedere mai. Rassicurante. In quell'istante, bloccato come un coglione davanti al frigo, con la grattugia in mano presi a grattarmi lievemente le unghie sulla superficie in cerca di una soluzione. E lì fu facile..mi guardai le mani e decisi che nella torta avrei grattugiato le mie unghie al posto del limone. Ma dovevo polverizzarle. Il mixer era occupato, presi il minipimer. mi tagliai le unghie una ad una e le polverizzai frullando al massimo della velocità. Una polvere bianca e sottile, ma poca. Non bastava ancora. Chiuso nel cesso, mi frugavo la testa, alla ricerca di una ciocca abbastanza liscia, abbastanza bionda. Calvizie incipiente. Nuca troppo scura. Ma sulle tempie, che lei una volta sola aveva accarezzato con le sue mani di farina, un ricciolo chiaro e perfetto. Con due dita, e con molta cura lo poggiai sul fondo del recipiente e lo frullai in mezzo alla polvere di unghie. Ora quello che avevo somigliava molto alla fecola di patate. Buttai tutto nel mixer. La bella palla di pasta ottenuta la avvolsi nella pellicola, le trovai un posto in frigo, ma questo non è difficile nel mio frigo, e me ne andai a fumare una sigaretta in balcone. Mentre la pasta riposava mi occupai con risolutezza del ripieno. Sciogliere il caffè solubile nel latte bollente. Sciogliere nel caffè solubile e nel latte cinque delle mie lacrime. Sputarci dentro non mi sembrava nè opportuno nè romantico. Quindi mi concentrai. Una sola volta avevo pianto per lei. E non erano lacrime tristi. Era una specie di commozione dovuta ad una insopportabile felicità. Non era successo niente fra me e lei. Nulla che lei avrebbe registrato nel suo diario o raccontato alle amiche, insomma. Ma si era lasciata andare, per circa due minuti aveva abbassato la guardia, e infilato le dita e il naso fra i miei capelli, senza dire nulla nè volere nulla. Tornando a casa non riuscivo a frenarmi e mi colava anche il naso. Nè riuscivo a rintracciare le ragioni delle sue carezze. Ma andava bene così. Lei mi piaceva, lei non mi dava speranze ma mi aveva in qualche modo regalato qualcosa. Le lacrime non si sciolsero subito, ma rimasero sospese sulla superficie unta del caffelatte. Poi si confusero. Misi nel mixer il burro con lo zucchero a sbattere fra loro, spaccai le uova sul bordo e le versai dentro. Nel minipimer misi le mandorle con un pò di farina e dopo averle tritate le unii all'impasto che ancora girava. Aggiunsi le lacrime sciolte nel caffè sciolte nel latte. Il composto era spumoso e fine. Accesi il forno. Adesso c'era solo da mettere la pasta dentro una teglia, e preparare la base che accogliesse il ripieno. Schiacciai la palla di pasta dal centro verso i bordi, cercando di renderla uniforme, e non lasciare bolle d'aria sotto la superficie. Volevo che avesse un bell'aspetto, ma soprattutto che sembrasse insospettabile. I mirtilli andavano lavati, e li lasciai sotto l'acqua corrente mentre versavo il ripieno dentro la teglia. Poi uno ad uno li feci affondare nel composto, calcandoli con le dita fino a poterne vedere solo una piccola parte rotonda, calcolando meticolosamente la proporzione fra le distanze. Infornai. Dopo 20 minuti la crostata andava tirata fuori, controllata, e rimessa in forno con della carta argentata sopra. Un segreto di mia madre per non far crepare la crosta. A quel punto mancava solo l'ultimo tocco, una spennellata di marmellata di more. Una spennellata del mio sangue in amore. Chiuso nel cesso, con le stesse forbici di prima e un bicchiere da rosolio mi praticai un foro sull'inguine. Cazzo faceva male. Faceva male come quando lei frenava la mia disinvoltura, o come quando mi salutava ripartendo sul suo motorino. O forse un pò di più. Comunque sia il sangue sprizzava, e non fu difficile riempire il fondo del bicchiere. Con le mutande macchiate e incerottato alla meglio tornai in cucina. A parte il fatto che non mi ero procurato nessun tipo di pennello per spennellare alcunché, il mio gioco era quasi finito. Con due dita e con il sangue scrissi il suo nome in una direzione. Tre lettere. Eva. Nella direzione opposta scrissi il mio, che non ci entrava tutto. Andai a capo. "Che cacata", mi venne da pensare. "Mi rovina tutto il simbolismo". Poi con il dorso di un cucchiaio spalmai sopra anche un pò di marmellata di more, come zuccherosa copertura alla mia colpevolezza. Abbandonai la mia creatura sotto il cestino del pane rovesciato e mene andai a dormire. Dormii per 14 ore, senza interruzione. Sognai di nuovo me stesso col cappello da cuoco, ma immerso in una distesa di marmellata di more, che si faceva fatica a restare a galla. L'unico altro essere oltre a me, una lontra disinvolta che se ne stava comodamente sul dorso e mi guardava, incrociando le zampe sulla pancia. Mi svegliai prima che mi rivolgesse parola. Martedì mattina salii le scale del suo palazzo, ripensando alla figura da minchione che avevo fatto la prima volta che mi portò a casa sua. "ma che bel vano scale" dissi. "Ma che bel vano scale". Si girò a guardarmi con un misto di sorpresa e di pietà sulla faccia e poi prese a salire senza commentare. Qualche ora dopo mi resi conto di quanto quello fosse stato un momento decisivo. Sul bel vano scale mi ero suicidato. A saperlo prima avrei detto "ma che bello il tuo culo quando sali le scale". O forse non avrei detto nulla. Comunque nulla sul vano scale. Mi accolse calorosa, e ancora in pigiama. Mi portò in cucina. Non aveva fatto colazione e mise su un caffè. Sembrava felice nella mattina del suo 25esimo compleanno. Io aspettavo solo che aprisse la torta. Aspettavo nella sua sorpresa e nella sua gratitudine una ricompensa per la mia maestria e un appagamento alla mia sofferenza inguinale. Faticavo a restare seduto. Scartocciò la crostata e spalancò gli occhi. Poi si strinse nelle spalle e mi guardò un pò più sorridente. Tolse il caffè dal fuoco e prese un coltello e due tazzine dallo scolapiatti. Tagliò due fette. Io ingoiavo la mia saliva sperando d'essere silenzioso. Primo morso. Sollevò i suoi grandi occhi e meli posò addosso. E disse solo "Non pensavo che tu fossi così".

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